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Mosca, di Guy de Maupassant letto dal prof. Garbarino



La notte, di Guy de Maupassant, letto dal prof Garbarino




La notte, Maupassant

Amo appassionatamente la notte. L'amo come si ama la patria o l'amante, di un amore istintivo, profondo, invincibile. L'amo con tutti i miei sensi, con gli occhi che la vedono, con líodorato che la respira, con le orecchie che ne ascoltano il silenzio, con tutta la mia carne che le tenebre accarezzano. Le allodole cantano nel sole, nel cielo sereno, nellíaria calda, nellíaria fresca dei chiari mattini. Il gufo fugge nell'oscurità, nera macchia che passa attraverso lo spazio nero, e, rallegrato, inebriato dalla nera immensità, lancia il suo strido vibrante e sinistro. Il giorno mi stanca e m'annoia. È brutale e rumoroso. Mi alzo a fatica, mi vesto svogliatamente, esco di cattivo umore, e ogni passo, ogni movimento, ogni gesto, ogni parola, ogni pensiero mi stancano come se sollevassi un pesante fardello. Ma quando ilsole tramonta m'invade una gioia confusa, una gioia di tutto il corpo. Mi sveglio, mi animo. A mano a mano che líombra s'infittisce mi sento un altro, più giovane, più forte, più sveglio, più felice. La guardo infoscarsi, questa grande ombra dolce caduta dal cielo: sommerge la città come un'onda inafferrabile e impenetrabile, nasconde, cancella, distrugge i colori, le forme, abbraccia le case, gli esseri, gli edifici col suo impercettibile tocco.
Allora sono tentato a gridare di piacere come le civette, a correre sui tetti come i gatti; e un impetuoso, un invincibile desiderio d'amare s'accende nelle mie vene.
Vado, cammino, ora nei sobborghi oscuri, ora nei boschi vicini a Parigi, dove odo aggirarsi le bestie mie sorelle e i bracconieri miei fratelli.
Quello che amiamo con violenza finisce sempre collíucciderci. Ma come spiegare ciò che mi accade? Anzi, come far comprendere ch'io possa raccontarlo? Non so, non so più, so soltanto che così è. - Ecco.
Ieri dunque - fu ieri? - sì, senza dubbio, a meno che non fosse un altro giorno, un altro mese, un altr'anno, - non so. Eppure dovette essere ieri, poiché il giorno non è più sorto, poiché il sole non è più riapparso. Ma da quanto dura la notte? Da quanto?... Chi lo dirà? Chi lo saprà mai? Ieri dunque uscii come faccio sempre dopo aver pranzato. La sera era splendida, calmissima, calda. Incamminandomi verso i boulevards guardai sopra il mio capo il fiume del ciclo, nero e gremito di stelle, contro il quale i tetti si stagliavano. E il mio percorso, pieno di giravolte, faceva ondulare come un fiume nero il ruscello roteante degli astri.
Tutto era chiaro nellíaria leggera, dai pianeti sino ai fanali a gas. Le luci che splendevano lassù e nella città erano tante, che le tenebre parevano illuminarsene. Le notti scintillanti sono più allegre che i grandi giorni di sole.
Sul boulevard i caffè fiammeggiavano, si rideva, si circolava, si beveva. Entrai in teatro per qualche minuto... in quale teatro? non so più. C'era così chiaro che mi sentii rattristato e ne uscii col cuore un po' oppresso da quellíurto di luce brutale sugli ori della balconata, da quello scintillio fittizio dellíenorme lampadario di cristallo, dalla barriera di fuoco della scalinata, dalla malinconia di quella chiarità falsa e cruda. Giunsi ai Champs-Elysées dove nel fogliame i caffè-concerto sembravano focolar! d'incendio. Gli ippocastani intrisi di luce gialla sembravano dipinti, sembravano alberi fosforescenti, e le lampade ad arco, simili a lune sfolgoranti e pallide, facevano impallidire sotto la loro luce madreperlacea, misteriosa e regale, le reticelle del gas, del gas brutto e scialbo, e le ghirlande di vetro colorato.
Mi fermai sotto líArco di Trionfo per guardare líavenue, la lunga e mirabile avenue stellata, fuggente verso Parigi tra due file di luci, e gli astri! gli astri lassù, gli astri sconosciuti disegnati a caso nell'immensità dove disegnano le strane figure che tanto fanno sognare, che tanto fanno pensare!
Entrai nel Bois de Boulogne e vi rimasi a lungo, a lungo. Mi aveva colto un brivido singolare, un'emozione imprevista e possente, un'esaltazione del pensiero che rasentava la follia. Camminai a lungo, a lungo. Poi ritornai. Che ora era quando ripassai sotto Parco trionfale? Non so. La città s'addormentava, e qualche nuvola - grosse nuvole nere - si allargava lentamente nel cielo. Per la prima volta sentii che stava per accadere qualche cosa di strano, di nuovo. Mi sembrò che facesse freddo, che líaria s'ispessisse, che la notte, la notte a me diletta, gravasse sul mio cuore. Líavenue era deserta, ora. Solo due guardie di città passeggiavano accanto al posteggio delle vetture di piazza, e sulla massicciata appena rischiarata dai lumi a gas che parevano morenti, una fila di carrette cariche di legumi andava al Mercato. Avanzavano lentamente, cariche di carote, di navoni e di cavoli. I conducenti dormivano invisibili, i cavalli camminavano con un passo uguale, seguendo il veicolo precedente, senza rumore sullíimpiantito di legno. Davanti a ciascuna luce del marciapiede le carote s'illuminavano in rosso, i navoni s'illuminavano in bianco, i cavoli s'illuminavano in verde; e passavano una dietro líaltra, quelle carrette rosse d'un rosso di fuoco, bianche d'un bianco d'argento, verdi d'un verde smeraldo. Le seguii, poi svoltai per la rue Royale, e tornai sul boulevard. Nessuna persona, nessun caffè illuminato; soltanto qualche passante in ritardo che s'affrettava. Non avevo mai visto Parigi così morta, così deserta.
Guardai líorologio. Erano le due. Mi spingeva una forza, un bisogno di camminare: proseguii quindi sino alla Bastiglia. Là m'accorsi che non avevo mai visto una notte così oscura, poiché non distinguevo nemmeno la colonna di luglio, il cui Genio díoro era annullato da uníimpenetrabile oscurità. Una cupola di nuvole, folte come líimmensità, aveva sommerso le stelle e sembrava abbassarsi sulla terra per annientarla. Ritornai. Non c'era più nessuno intorno a me. Soltanto in piazza del Chàteau-d'Eau un ubriaco venne a darmi di cozzo, poi scomparve. Udii per un poco il suo passo sonoro e ineguale. Camminavo. Allíaltezza del Faubourg Montmartre passò una vettura di piazza che andava verso la Senna. Chiamai. Il cocchiere non rispose. Una donna vagava accanto alla rue Drouot. "Signore, signore, sentite... "
Affrettai il passo per evitare la sua mano tesa. Poi più nulla. Davanti al Vaudeville un cenciaiuolo frugava nel rigagnolo. Il suo lanternino ondulava rasente terra. Gli domandai:
" Che ora è, brav'uomo?"
Borbottò:
" E che ne so? io non ho orologio."
Allora m'accorsi improvvisamente che i lumi a gas erano spenti. So che in questa stagione vengono eliminati di buon'ora, prima dell'alba, per economia: ma il giorno era lontano, tanto lontano dallo spuntare! "Andiamo al Mercato" pensai "lì almeno troverò la vita." Mi incamminai, ma non ci vedevo nemmeno tanto da trovare la strada. Avanzavo lentamente, come si fa in un bosco, e riconoscevo le strade contandole.
Davanti al Crédit Lyonnais un cane brontolò. Ritornai dalla rue de Grammont, e mi sperdettì; errai, poi riconobbi la Borsa dalle cancellate di ferro che la circondano. Tutta Parigi dormiva d'un sonno profondo, spaventoso. Frattanto, correva lontano una carrozza, una sola vettura di piazza; forse quella che m'era passata davanti poc'anzi. Cercavo di raggiungerla andando verso il rumore delle ruote, attraverso le strade solitarie e buie, buie, buie come la morte.
Mi smarrii ancora. Dov'ero? Che follia, quella di spegnere il gas così presto! Non un passante, non un ritardatario, non un girellone, nemmeno il miagolio d'un gatto in amore. Nulla. Dov'erano dunque le guardie di città? Dissi tra me:"Adesso mi metto a gridare, accorreranno". Gridai. Nessuno mi rispose.
Chiamai più forte. La mia voce si disperse, senza eco, fievole, soffocata, schiacciata dall'oscurità, da quella oscurità impenetrabile. Urlai: "Aiuto! aiuto! aiuto!"
II mio richiamo disperato rimase senza risposta. Che ora era dunque? Estrassi líorologio, ma non avevo fiammiferi. Ascoltai il tic-tac leggero del fragile meccanismo con una gioia sconosciuta e bizzarra: sembrava vivesse. Ero meno solo.
Quale mistero! Mi rimisi in cammino come un cieco, tentando i muri col bastone, e alzavo di continuo gli occhi al cielo sperando che finalmente spuntasse il giorno: ma lo spazio era nero, assolutamente nero, più profondamente nero che la città. Che ora poteva essere? Camminavo, mi pareva, da un tempo infinito, poiché le gambe mi si piegavano, il petto ansava e avevo una fame terribile.
Mi decisi a suonare al primo portone. Tirai il pomo d'ottone, e il campanello squillò nella casa sonora: squillò stranamente, come se quel rumore vibrante fosse stato solo nellíedificio.
Aspettai: nessuno rispondeva, la porta rimase chiusa. Suonai nuovamente: attesi ancora... nulla! Ebbi paura! Corsi alla casa vicina, e venti volte di seguito feci squillare la suoneria nel corridoio oscuro dove presumibilmente dormiva - il portinaio. Ma nessuno si svegliava - e io andai più lontano, tirando con tutta la mìa forza líanello o il pomo d'ottone, bussando coi piedi, con le mani, col bastone a tutte le porte ostinatamente chiuse.
E d'improvviso mi accorsi ch'ero giunto al Mercato. Il Mercato era deserto, senza un rumore, senza un movimento, senza una carretta, senza un uomo, senza un cesto di verdura ; o di fiori. Vuoto, immobile, abbandonato, morto!
Fui colto da uno spavento orribile. Che succedeva?
Mi rimisi in cammino. Ma líora? líora? chi mi avrebbe detto líora? Nessun orologio suonava ai campanili o negli edifici pubblici. Pensavo: "Adesso apro il vetro del mio cronometro e tasto le sfere con le dita". Estrassì líorologio:non batteva più, s'era fermato. Più nulla, più nulla, non un palpito nella città, non una luce, non la vibrazione di un suono nell'aria. Nulla! più nulla! nemmeno la corsa lontana della vettura di piazza - più nulla! Ero giunto sul Lungosenna, e una freschezza glaciale saliva dal fiume. La Senna scorreva ancora?
Volli sapere: trovai la scala, discesi... Non udivo la corrente ribollire sotto gli archi del ponte... Qualche gradino ancora... poi sabbia... mota... poi acqua... vi tuffai il braccio... scorreva... scorreva... fredda... fredda... fredda... quasi gelata... quasi inaridita... quasi morta...
E sentivo bene che non avrei mai più avuto la forza di risalire, e che sarei morto lì... anch'io, di fame... di stanchezza... e di freddo.


LA NUIT
[ Nouvelle publiée dans La vie populaire, nø 18, 1er mars 1891, pp. 274 ss. ]


J'aime la nuit avec passion. Je l'aime comme on aime son pays ou sa maîtresse, d'un amour instinctif, profond, invincible. Je l'aime avec tous mes sens, avec mes yeux qui la voient, avec mon odorat qui la respire, avec mes oreilles qui en écoutent le silence, avec toute ma chair que les ténèbres caressent. Les alouettes chantent dans le soleil, dans l'air bleu, dans l'air chaud, dans l'air léger des matinées claires. Le hibou fuit dans la nuit, tache noire qui passe à travers l'espace noir, et, réjoui, grisé par la noire immensité, il pousse son cri vibrant et sinistre.
Le jour me fatigue et m'ennuie. Il est brutal et bruyant. Je me lève avec peine, je m'habille avec lassitude, je sors avec regret, et chaque pas, chaque mouvement, chaque geste, chaque parole, chaque pensée me fatigue comme si je soulevais un écrasant fardeau.
Mais quand le soleil baisse, une joie confuse, une joie de tout mon corps m'envahit. Je m'éveille, je m'anime. A mesure que l'ombre grandit, je me sens tout autre, plus jeune, plus fort, plus alerte, plus heureux. Je la regarde s'épaissir, la grande ombre douce tombée du ciel : elle noie la ville, comme une onde insaisissable et impénétrable, elle cache, efface, détruit les couleurs, les formes, étreint les maisons, les êtres, les monuments de son imperceptible toucher.
Alors j'ai envie de crier de plaisir comme les chouettes, de courir sur les toits comme les chats; et un impétueux, un invincible désir d'aimer s'allume dans mes veines.
Je vais, je marche, tantôt dans les faubourgs assombris, tantôt dans les bois voisins de Paris, où j'entends rôder mes soeurs les bêtes et mes frères les braconniers.
Ce qu'on aime avec violence finit toujours par vous tuer. Mais comment expliquer ce qui m'arrive ? Comment même faire comprendre que je puisse le raconter? Je ne sais pas, je ne sais plus, je sais seulement que cela est. -- Voilà.
Donc hier -- était-ce hier ? -- oui, sans doute, à moins que ce soit auparavant, un autre jour, un autre mois, une autre année -- je ne sais pas. Ce doit être hier pourtant, puisque le jour ne s'est plus levé, puisque le soleil n'a pas reparu. Mais depuis quand la nuit dure-t-elle ? Depuis quand ?... Qui le dira ? Qui le saura jamais ?
Donc hier, je sortis comme je fais tous les soirs, après mon dîner. Il faisait très beau, très doux, très chaud. En descendant vers les boulevards, je regardais au-dessus de ma tête le fleuve noir et plein d'étoiles découpé dans le ciel par les toits de la rue qui tournait et faisait onduler comme une vraie rivière ce ruisseau roulant des astres.
Tout était clair dans l'air léger, depuis les planètes jusqu'aux becs de gaz. Tant de feux brillaient là-haut et dans la ville que les ténèbres en semblaient lumineuses. Les nuits luisantes sont plus joyeuses que les grands jours de soleil.
Sur le boulevard, les cafés flamboyaient ; on riait, on passait, on buvait. J'entrai au théâtre, quelques instants, dans quel théâtre, je ne sais plus. Il y faisait si clair que cela m'attrista et je ressortis le coeur un peu assombri par ce choc de lumière brutale sur les ors du balcon, par le scintillement factice du lustre énorme de cristal, par la barrière de feu de la rampe, par la mélancolie de cette clarté fausse et crue. Je gagnai les Champs-Élysées où les cafés-concerts semblaient des foyers d'incendie dans les feuillages. Les marronniers frottés de lumière jaune avaient l'air peints, un air d'arbres phosphorescents. Et les globes électriques, pareils à des lunes éclatantes et pâles, à des oeufs de lune tombés du ciel, à des perles monstrueuses, vivantes, faisaient pâlir sous leur clarté nacrée, mystérieuse et royale les filets de gaz, de vilain gaz sale, et les guirlandes de verres de couleur.
Je m'arrêtai sous l'Arc de Triomphe pour regarder l'avenue, la longue et admirable avenue étoilée, allant vers Paris entre deux lignes de feux, et les astres! Les astres, là-haut, les astres inconnus jetés au hasard dans l'immensité où ils dessinent ces figures bizarres, qui font tant rêver, qui font tant songer.
J'entrai dans le Bois de Boulogne et j'y restai longtemps, longtemps. Un frisson singulier m'avait saisi, une émotion imprévue et puissante, une exaltation de ma pensée qui touchait à la folie.
Je marchai longtemps, longtemps. Puis je revins.
Quelle heure était-il quand je repassais sous l'Arc de Triomphe? Je ne sais pas. La ville s'endormait, et des nuages, de gros nuages noirs s'étendaient lentement sur le ciel.
Pour la première fois je sentis qu'il allait arriver quelque chose d'étrange, de nouveau. Il me sembla qu'il faisait froid, que l'air s'épaississait, que la nuit, ma nuit bien-aimée, devenait lourde sur mon coeur. L'avenue était déserte maintenant. Seuls, deux sergents de ville se promenaient auprès de la station des fiacres, et sur la chaussée à peine éclairée par les becs de gaz qui paraissaient mourants, une file de voitures de légumes allait aux Halles. Elles allaient lentement, chargées de carottes, de navets et de choux. Les conducteurs dormaient, invisibles, les chevaux marchaient d'un pas égal, suivant la voiture précédente, sans bruit, sur le pavé de bois. Devant chaque lumière du trottoir, les carottes s'éclairaient en rouge, les navets s'éclairaient en blanc, les choux s'éclairaient en vert; et elles passaient l'une derrière l'autre, ces voitures rouges, d'un rouge de feu, blanches d'un blanc d'argent, vertes d'un vert d'émeraude. Je les suivis, puis je tournai par la rue Royale et revins sur les boulevards. Plus personne, plus de cafés éclairés, quelques attardés seulement qui se hâtaient. Je n'avais jamais vu Paris aussi mort, aussi désert. Je tirai ma montre. Il était deux heures.
Une force me poussait, un besoin de marcher. J'allai donc jusqu'à la Bastille. Là je m'aperçus que je n'avais jamais vu une nuit si sombre, car je ne distinguais pas même la colonne de Juillet, dont le Génie d'or était perdu dans l'impénétrable obscurité. Une voûte de nuages, épaisse comme l'immensité avait noyé les étoiles, et semblait s'abaisser sur la terre pour l'anéantir.
Je revins. Il n'y avait plus personne autour de moi. Place du Château-d'Eau, pourtant, un ivrogne faillit me heurter, puis il disparut. J'entendis quelque temps son pas inégal et sonore. J'allais. A la hauteur du faubourg Montmartre un fiacre passa, descendant vers la Seine. Je l'appelai. Le cocher ne répondit pas. Une femme rôdait près de la rue Drouot : " Monsieur, écoutez donc. " Je hâtai le pas pour éviter sa main tendue. Puis plus rien. Devant le Vaudeville un chiffonnier fouillait le ruisseau. Sa petite lanterne flottait au ras du sol. Je lui demandai : " Quelle heure est-il, mon brave? "
Il grogna : " Est-ce que je sais. J'ai pas de montre. "
Alors je m'aperçus tout à coup que les becs de gaz étaient éteints. Je sais qu'on les supprime de bonne heure, avant le jour, en cette saison, par économie; mais le jour était encore loin, si loin de paraître.
" Allons aux Halles, pensai-je, là au moins je trouverai de la vie. "
Je me mis en route, mais je n'y voyais pas même pour me conduire. J'avançais lentement, comme on fait dans un bois, reconnaissant les rues en les comptant.
Devant le Crédit Lyonnais, un chien grogna. Je tournai par la rue de Grammont, je me perdis; j'errai, puis je reconnus la Bourse aux grilles de fer qui l'entourent. Paris entier dormait, d'un sommeil profond, effrayant. Au loin pourtant un fiacre roulait, un seul fiacre, celui peut-être qui avait passé devant moi tout à l'heure. Je cherchais à le joindre, allant vers le bruit de ses roues, à travers les rues solitaires et noires, noires, noires comme la mort.
Je me perdis encore. Où étais-je ? Quelle folie d'éteindre si tôt le gaz ! Pas un passant, pas un attardé, pas un rôdeur, pas un miaulement de chat amoureux. Rien.
Où donc étaient les sergents de ville ? Je me dis : " Je vais crier, ils viendront. " Je criai. Personne ne me répondit.
J'appelai plus fort. Ma voix s'envola, sans écho, faible, étouffée, écrasée par la nuit, par cette nuit impénétrable.
Je hurlai : " Au secours ! au secours ! au secours ! "
Mon appel désespéré resta sans réponse. Quelle heure était-il donc ? Je tirai ma montre, mais je n'avais point d'allumettes. J'écoutai le tic-tac léger de la petite mécanique avec une joie inconnue et bizarre. Elle semblait vivre. J'étais moins seul. Quel mystère ! Je me remis en marche comme un aveugle, en tâtant les murs de ma canne, et je levais à tout moment les yeux vers le ciel, espérant que le jour allait enfin paraître ; mais l'espace était noir, tout noir, plus profondément noir que la ville.
Quelle heure pouvait-il être ? Je marchais, me semblait-il, depuis un temps infini, car mes jambes fléchissaient sous moi, ma poitrine haletait, et je souffrais de la faim horriblement. Je me décidai à sonner à la première porte cochère. Je tirai le bouton de cuivre, et le timbre tinta dans la maison sonore; il tinta étrangement comme si ce bruit vibrant eût été seul dans cette maison.
J'attendis, on ne répondit pas, on n'ouvrit point la porte. Je sonnai de nouveau ; j'attendis encore, - rien !
J'eus peur ! je courus à la demeure suivante, et vingt fois de suite je fis résonner la sonnerie dans le couloir obscur où devait dormir le concierge. Mais il ne s'éveilla pas - et j'allai plus loin, tirant de toutes mes forces les anneaux ou les boutons, heurtant de mes pieds, de ma canne et de mes mais les portes obstinément closes.
Et tout à coup, je m'aperçus que j'arrivais aux Halles. Les Halles étaient désertes, sans un bruit, sans un mouvement, sans une voiture, sans un homme, sans une botte de légumes ou de fleurs. - Elles étaient vides, immobiles, abandonnées, mortes!
Une épouvante me saisit - horrible. Que se passait-il ? Oh ! mon Dieu ! que se passait-il ?
Je repartis. Mais l'heure ? l'heure ? qui me dirait l'heure ? Aucune horloge ne sonnait dans les clochers ou dans les monuments. Je pensai : " Je vais ouvrir le verre de ma montre et tâter l'aiguille avec mes doigts. " Je tirai ma montre... elle ne battait plus... elle était arrêtée. Plus rien, plus rien, plus un frisson dans la ville, pas une lueur, pas un frôlement de son dans l'air. Rien ! plus rien ! plus même le roulement lointain du fiacre - plus rien !
J'étais aux quais, et une fraîcheur glaciale montait de la rivière.
La Seine coulait-elle encore ?
Je voulus savoir, je trouvai l'escalier, je descendis... Je n'entendais pas le courant bouillonner sous les arches du pont... Des marches encore... puis du sable... de la vase... puis de l'eau... j'y trempai mon bras... elle coulait... elle coulait... froide... froide... froide... presque gelée... presque tarie... presque morte.
Et je sentais bien que je n'aurais plus jamais la force de remonter... et que j'allais mourir là... moi aussi, de faim -- de fatigue -- et de froid.

"Due amici" di Guy de Maupassant, video testo letto dal prof. Garbarino




Parigi era bloccata, affamata, rantolante. Sui tetti i passeri diminuivano e le fogne si stavano spopolando. Si mangiava qualsiasi cosa.
In una limpida mattinata di gennaio Morissot, orologiaio di professione e guardia nazionale per necessità, stava passeggiando tristemente sul boulevard di circonvallazione, con le mani nelle tasche dei calzoni della divisa e la pancia vuota, quando si fermò di botto davanti a un suo confratello, nel quale riconobbe un amico. Era il signor Sauvage, una conoscenza fatta sulla sponda del fiume.
Tutte le domeniche, prima della guerra, Morissot partiva all'alba, con una canna di bambù in mano, e un barattolo di latta a tracolla. Prendeva il treno d'Argenteuil, scendeva a Colombes e arrivava a piedi fino all'isola Marante. Appena giunto nel luogo dei suoi sogni cominciava a pescare, e pescava fino a buio.
Tutte le domeniche s'incontrava laggiù con un ometto grasso e gioviale, il signor Sauvage, merciaio in via della Madonna di Loreto, anche lui fanatico pescatore. Spesso stavano una mezza giornata a fianco a fianco, con la lenza in mano e i piedi penzoloni sull'acqua; erano diventati amici.
Certi giorni non parlavano affatto; altre volte facevano quattro chiacchiere. Ma andavano benissimo d'accordo anche senza dir nulla, poiché avevano gli stessi gusti e una identica sensibilità.
Nelle mattine di primavera, verso le dieci, quando il sole ringiovanito faceva galleggiare sul fiume tranquillo quella nebbiolina che scorre insieme all'acqua, e riversava sulla schiena dei due accaniti pescatori il benefico calore della nuova stagione, Morissot diceva talvolta al suo vicino: - Che dolcezza, eh? - e Sauvage rispondeva: - Non c'è nulla di meglio. - Questo bastava perché si capissero e si stimassero.
In autunno, verso la fine della giornata, quando il cielo insanguinato dal sole al tramonto rifletteva nell'acqua le nuvole scarlatte, imporporava tutto il fiume, infiammava l'orizzonte, rendeva incandescenti e dorava, intorno a loro, gli alberi già imbionditi, e frementi del brivido dell'inverno, Sauvage guardava sorridendo Morissot, e diceva: - Che spettacolo! - E Morissot rispondeva, senza levar gli occhi dal suo sughero: - È meglio del boulevard, no?
Appena si furono riconosciuti, si strinsero energicamente la mano, commossi di ritrovarsi in tempi così mutati. Sospirando, Sauvage mormorò: - Quante ne son successe... - Morissot, serio serio, gemette: - E che tempaccio! Questa è la prima bella giornata dell'anno.
Difatti il cielo era azzurro e luminoso.
S'incamminarono l'uno accanto all'altro, tristi e pensierosi. Morissot continuò: - E la pesca, eh? che bel ricordo!
- Quando ci torneremo? - chiese Sauvage.
Entrarono in un caffeuccio e presero insieme l'aperitivo; dopo ricominciarono a passeggiare sul marciapiede.
D'un tratto Morissot si fermò: - Un altro gocciolino? - Sauvage approvò: - Ai vostri ordini. - Entrarono in un secondo caffè.
Si sentivano storditi uscendo, turbati come chiunque a digiuno si riempia la pancia d'alcool.
L'aria era dolce. Un venticello carezzevole solleticava i loro visi.
L'aria tiepida finì di ubriacare Sauvage, che si fermò: - E se ci andassimo?
- Dove?
- A pescare.
- E dove?
- Alla nostra isola. Gli avamposti francesi sono dopo Colombes. Io conosco il colonnello Dumolin; ci farà passare senza difficoltà.
Morissot fremeva di desiderio: - Sicuro, ci sto. - E si lasciarono per andare a prendere i loro arnesi.
Un'ora dopo camminavano, accanto, sulla strada maestra; giunsero alla villa occupata dal colonnello. Alla loro richiesta costui sorrise e acconsentì al capriccio. Si rimisero in cammino forniti di un lasciapassare.
Ben presto oltrepassarono gli avamposti, attraversarono Colombes abbandonata, e si trovarono sul margine dei piccoli vigneti che scendono verso la Senna. Erano circa le undici
Di fronte, il villaggio di Argenteuil pareva morto. Le alture di Orgemont e di Sannois dominavano il paese. La grande pianura che arriva fino a Nantes era completamente vuota, i ciliegi spogli e la terra grigia.
Sauvage mostrando a dito le alture mormorò: - Lassù ci sono i prussiani. - I due amici si sentivano paralizzati dall'inquietudine davanti al paese deserto.
I prussiani! Non li avevano mai visti, ma erano mesi che li sentivano, intorno a Parigi, distruggere la Francia, saccheggiare, massacrare, affamare, invisibili ed onnipotenti. Un superstizioso terrore s'aggiungeva al loro odio per quel popolo sconosciuto e vincitore.
- E se li incontrassimo? - balbettò Morissot.
Sauvage rispose, con la spavalderia parigina sempre viva nonostante tutto:
- Gli offriremo un po' di fritto.
Tuttavia esitavano a inoltrarsi nella campagna, intimiditi dal gran silenzio.
Infine Sauvage si decise: - Via, andiamo; però, attenti...
Scesero in un vigneto, chinati in due, strisciando, approfittando dei cespugli per coprirsi, con lo sguardo inquieto, e l'orecchio teso.
Dovevano ancora attraversare una striscia di terra nuda, per raggiungere la sponda del fiume. Si misero a correre; e appena furono arrivati alla riva, si rannicchiarono tra le canne secche.
Morissot incollò l'orecchio a terra per sentire se qualcuno camminasse d'intorno. Non sentì nulla. Erano soli, proprio soli.
Rinfrancati, cominciarono a pescare.
Di fronte a loro, l'isola Marante, abbandonata, li nascondeva alla vista dell'altra riva. La piccola trattoria era chiusa, pareva abbandonata da anni.
Sauvage pescò il primo ghiozzo, Morissot il secondo, e continuamente essi tiravano su le lenze con una bestiolina d'argento che guizzava in cima al filo: una vera pesca miracolosa.
Mettevano delicatamente i pesci dentro una borsa di rete a maglie molto fitte, che era immersa nell'acqua, ai loro piedi. E si sentivano prendere da una deliziosa gioia, la gioia di chi ritrova un piacere prediletto del quale è rimasto privo per parecchio tempo.


DEUX AMIS, Maupassant

Paris était bloqué, affamé et râlant. Les moineaux se faisaient bien rares sur les toits, et les égouts se dépeuplaient. On mangeait n'importe quoi.
Comme il se promenait tristement par un clair matin de janvier le long du boulevard extérieur, les mains dans les poches de sa culotte d'uniforme et le ventre vide, M. Morissot, horloger de son état et pantouflard par occasion, s'arrêta net devant un confrère qu'il reconnut pour un ami. C'était M. Sauvage, une connaissance du bord de l'eau.
Chaque dimanche, avant la guerre, Morissot partait dès l'aurore, une canne en bambou d'une main, une boîte en fer-blanc sur le dos. Il prenait le chemin de fer d'Argenteuil, descendait à Colombes, puis gagnait à pied l'île Marante. A peine arrivé en ce lieu de ses rêves, il se mettait à pêcher ; il pêchait jusqu'à la nuit.
Chaque dimanche, il rencontrait là un petit homme replet et jovial, M. Sauvage, mercier, rue Notre-Dame-de-Lorette, autre pêcheur fanatique. Ils passaient souvent une demi-journée côte à côte, la ligne à la main et les pieds ballants au-dessus du courant ; et ils s'étaient pris d'amitié l'un pour l'autre.
En certains jours, ils ne parlaient pas. Quelquefois ils causaient ; mais ils s'entendaient admirablement sans rien dire, ayant des goûts semblables et des sensations identiques.
Au printemps, le matin, vers dix heures, quand le soleil rajeuni faisait flotter sur le fleuve tranquille cette petite buée qui coule avec l'eau, et versait dans le dos des deux enragés pêcheurs une bonne chaleur de saison nouvelle, Morissot parfois disait à son voisin: "Hein ! quelle douceur!" et M. Sauvage répondait : "Je ne connais rien de meilleur". Et cela leur suffisait pour se comprendre et s'estimer.
A l'automne, vers la fin du jour, quand le ciel, ensanglanté par le soleil couchant, jetait dans l'eau des figures de nuages écarlates, empourprait le fleuve entier, enflammait l'horizon, faisait rouge comme du feu entre les deux amis, et dorait les arbres roussis déjà, frémissants d'un frisson d'hiver, M. Sauvage regardait en souriant Morissot et prononçait : "Quel spectacle !" Et Morissot émerveillait répondait, sans quitter des yeux son flotteur : "Cela vaut mieux que le boulevard, hein !"
Dès qu'ils se furent reconnus, ils se serrèrent les mains énergiquement, tout émus de se retrouver en des circonstances si différentes. M. Sauvage, poussant un soupir, murmura : "En voilà des événements !" Morissot, très morne, gémit : "Et quel temps ! C'est aujourd'hui le premier beau jour de l'année."
Le ciel était, en effet, tout bleu et plein de lumière.
Ils se mirent à marcher côte à côte, rêveurs et tristes, Morissot reprit : "Et la pêche ? hein ! quel bon souvenir !"
M. Sauvage demanda : "Quand y retournerons-nous ?"
Ils entrèrent dans un petit café et burent ensemble une absinthe ; puis ils se remirent à se promener sur les trottoirs.
Morissot s'arrêta soudain : "Une seconde verte, hein ?" M. Sauvage y consentit : "A votre disposition." Et ils pénétrèrent chez un autre marchand de vins.
Ils étaient fort étourdis en sortant, troublés comme des gens à jeun dont le ventre est plein d'alcool. Il faisait doux. Une brise caressante leur chatouillait le visage; M. Sauvage, que l'air tiède achevait de griser, s'arrêta: "Si on y allait ?"
- Où ça ?
- A la pêche, donc.
- Mais où ?
- Mais à notre île. Les avant-postes français sont auprès de Colombes. Je connais le colonel Dumoulin ; on nous laissera passer facilement."
Morissot frémit de désir : "C'est dit. J'en suis." Et ils se séparèrent pour prendre leurs instruments.
Une heure après, ils marchaient côte à côte, sur la grand'route. Puis ils gagnèrent la villa qu'occupait le colonel. Il sourit de leur demande et consentit à leur fantaisie. Ils se remirent en marche, munis d'un laissez-passer.
Bientôt ils franchirent les avant-postes, traversèrent Colombes abandonné, et se retrouvèrent au bord des petits champs de vigne qui descendent vers la Seine. Il était environ onze heures.
En face, le village d'Argenteuil semblait mort. Les hauteurs d'Orgemont et de Sannois dominaient tout le pays. La grande plaine qui va jusqu'à Nanterre était vide, toute vide, avec ses cerisiers nus et ses terres grises.
M. Sauvage, montrant du doigt les sommets, murmura : "Les Prussiens sont là-haut !" Et une inquiétude paralysait les deux amis devant ce pays désert.
Les Prussiens ! Ils n'en avaient jamais aperçu mais il les sentaient là depuis des mois, autour de Paris, ruinant la France, pillant, massacrant, affamant, invisibles et tout-puissants. Et une sorte de terreur superstitieuse s'ajoutait à la haine qu'ils avaient pour ce peuple inconnu et victorieux.
Morissot balbutia : "Hein ! si nous allions en rencontrer ?"
M. Sauvage répondit, avec cette gouaillerie parisienne reparaissant malgré tout : "Nous leur offririons une friture."
Mais ils hésitaient à s'aventurer dans la campagne, intimidés par le silence de tout l'horizon.
A la fin, M. Sauvage se décida : "Allons, en route ! mais avec précaution." Et ils descendirent dans un champ de vigne, courbés en deux, rampant, profitant des buissons pour se couvrir, l'oeil inquiet, l'oreille tendue.
Une bande de terre nue restait à traverser pour gagner le bord du fleuve. Ils se mirent à courir ; et dès qu'ils eurent atteint la berge, ils se blottirent dans les roseaux secs.
Morissot colla sa joue par terre pour écouter si on ne marchait pas dans les environs. Il n'entendit rien. Ils étaient bien seuls, tout seuls.
Ils se rassurèrent et se mirent à pêcher.
En face d'eux, l'île Marante abandonnée les cachait à l'autre berge. La petite maison du restaurant était close, semblait délaissée depuis des années.
M. Sauvage prit le premier goujon. Morissot attrapa le second, et d'instant en instant ils levaient leurs lignes avec une petite bête argentée frétillant au bout du fil ; une vraie pêche miraculeuse.
Ils introduisaient délicatement les poissons dans une poche de filet à mailles très serrées, qui trempait à leurs pieds, et une joie délicieuse les pénétrait, cette joie qui vous saisit quand on retrouve un plaisir aimé dont on est privé depuis longtemps.
Le bon soleil leur coulait sa chaleur entre les épaules ; ils n'écoutaient plus rien ; ils ne pensaient plus à rien ; ils ignoraient le reste du monde ; ils pêchaient.
Mais soudain un bruit sourd qui semblait venir de sous terre fit trembler le sol. Le canon se remettait à tonner.
Morissot tourna la tête, et par-dessus la berge il aperçut, là-bas, sur la gauche, la grande silhouette du Mont-Valérien, qui portait au front une aigrette blanche, une buée de poudre qu'il venait de cracher.
Et aussitôt un second jet de fumée partit du sommet de la forteresse ; et quelques instants après une nouvelle détonation gronda.
Puis d'autres suivirent, et de moment en moment, la montagne jetait son haleine de mort, soufflait ses vapeurs laiteuses qui s'élevaient lentement dans le ciel calme, faisaient un nuage au-dessus d'elle.
M. Sauvage haussa les épaules : "Voilà qu'ils recommencent", dit-il.
Morissot, qui regardait anxieusement plonger coup sur coup la plume de son flotteur, fut pris soudain d'une colère d'homme paisible contre ces enragés qui se battaient ainsi, et il grommela : "Faut-il être stupide pour se tuer comme ça !"
M. Sauvage reprit : "C'est pis que des bêtes."
Et Morissot qui venait de saisir une ablette, déclara : "Et dire que ce sera toujours ainsi tant qu'il y aura des gouvernements."
M. Sauvage l'arrêta : "La République n'aurait pas déclaré la guerre..."
Morissot l'interrompit : "Avec les rois on a la guerre au dehors ; avec la République on a la guerre au dedans."
Et tranquillement ils se mirent à discuter, débrouillant les grands problèmes politiques avec une raison saine d'hommes doux et bornés, tombant d'accord sur ce point, qu'on ne serait jamais libres. Et le Mont-Valérien tonnait sans repos, démolissant à coups de boulet des maisons françaises, broyant des vies, écrasant des êtres, mettant fin à bien des rêves; à bien des joies attendues, à bien des bonheurs espérés, ouvrant en des coeurs de femmes, en des coeurs de filles, en des coeurs de mères, là-bas, en d'autres pays, des souffrances qui ne finiraient plus.
"C'est la vie", déclara M. Sauvage.
"Dites plutôt que c'est la mort", reprit en riant Morissot.
Mais ils tressaillirent effarés, sentant bien qu'on venait de marcher derrière eux ; et ayant tourné les yeux, ils aperçurent, debout contre leurs épaules, quatre hommes, quatre grands hommes armés et barbus, vêtus comme des domestiques en livrée et coiffés de casquettes plates, les tenant en joue au bout de leurs fusils.
Les deux lignes s'échappèrent de leurs mains et se mirent à descendre la rivière.
En quelques secondes, ils furent saisis, emportés, jetés dans une barque et passés dans l'île.
Et derrière la maison qu'ils avaient crue abandonnée, ils aperçurent une vingtaine de soldats allemands.
Une sorte de géant velu, qui fumait, à cheval sur une chaise, une grande pipe de porcelaine, leur demanda, en excellent français : "Eh bien, messieurs, avez-vous fait bonne pêche ?"
Alors un soldat déposa aux pieds de l'officier le filet plein de poissons qu'il avait eu soin d'emporter. Le Prussien sourit : "Eh! eh! je vois que ça n'allait pas mal. Mais il s'agit d'autre chose. Ecoutez-moi et ne vous troublez pas.
"Pour moi, vous êtes deux espions envoyés pour me guetter. Je vous prends et je vous fusille. Vous faisiez semblant de pêcher, afin de mieux dissimuler vos projets. Vous êtes tombés entre mes mains, tant pis pour vous ; c'est la guerre. Mais comme vous êtes sortis par les avant-postes, vous avez assurément un mot d'ordre pour rentrer. Donnez-moi ce mot d'ordre et je vous fais grâce."
Les deux amis, livides, côte à côte, les mains agitées d'un léger tremblement nerveux, se taisaient.
L'officier reprit : "Personne ne le saura jamais, vous rentrerez paisiblement. Le secret disparaîtra avec vous. Si vous refusez, c'est la mort, et tout de suite. Choisissez ?"
Ils demeuraient immobiles sans ouvrir la bouche.
Le Prussien, toujours calme, reprit en étendant la main vers la rivière : "Songez que dans cinq minutes vous serez au fond de cette eau. Dans cinq minutes ! Vous devez avoir des parents ?"
Le Mont-Valérien tonnait toujours.
Les deux pêcheurs restaient debout et silencieux. L'Allemand donna des ordres dans sa langue. Puis il changea sa chaise de place pour ne pas se trouver trop près des prisonniers ; et douze hommes vinrent se placer à vingt pas, le fusil au pied.
L'officier reprit : "Je vous donne une minute, pas deux secondes de plus."
Puis il se leva brusquement, s'approcha des deux Français, prit Morissot sous le bras, l'entraîna plus loin, lui dit à voix basse : "Vite, ce mot d'ordre ? Votre camarade ne saura rien, j'aurai l'air de m'attendrir."
Morissot ne répondit rien.
Le Prussien entraîna alors M. Sauvage et lui posa la même question.
M. Sauvage ne répondit pas.
Ils se retrouvèrent côte à côte.
Et l'officier se mit à commander. Les soldats élevèrent leurs armes.
Alors le regard de Morissot tomba par hasard sur le filet plein de goujons, resté dans l'herbe, à quelques pas de lui.
Un rayon de soleil faisait briller le tas de poisson qui s'agitaient encore. Et une défaillance l'envahit. Malgré ses efforts, ses yeux s'emplirent de larmes.
Il balbutia : "Adieu, monsieur Sauvage."
M. Sauvage répondit : "Adieu, monsieur Morissot."
Ils se serrèrent la main, secoués des pieds à la tête par d'invincibles tremblements.
L'officier cria : "Feu !"
Les douze coups n'en firent qu'un.
M. Sauvage tomba d'un bloc sur le nez. Morissot, plus grand, oscilla, pivota et s'abattit en travers sur son camarade, le visage au ciel, tandis que des bouillons de sang s'échappaient de sa tunique crevée à la poitrine.
L'Allemand donna de nouveaux ordres.
Ses hommes se dispersèrent, puis revinrent avec des cordes et des pierres qu'ils attachèrent aux pieds des deux morts ; puis ils les portèrent sur la berge.
Le Mont-Valérien ne cessait pas de gronder, coiffé maintenant d'une montagne de fumée.
Deux soldats prirent Morissot par la tête et par les jambes ; deux autres saisirent M. Sauvage de la même façon. Les corps, un instant balancés avec force, furent lancés au loin, décrivirent une courbe, puis plongèrent, debout, dans le fleuve, les pierres entraînant les pieds d'abord.
L'eau rejaillit, bouillonna, frissonna, puis se calma, tandis que de toutes petites vagues s'en venaient jusqu'aux rives. Un peu de sang flottait.
L'officier, toujours serein, dit à mi-voix : "C'est le tour des poissons maintenant."
Puis il revint vers la maison.
Et soudain il aperçut le filet aux goujons dans l'herbe. Il le ramassa, l'examina, sourit, cria : "Wilhelm !"
Un soldat accourut, en tablier blanc. Et le Prussien, lui jetant la pêche des deux fusillés, commanda : "Fais-moi frire tout de suite ces petits animaux-là pendant qu'ils sont encore vivants. Ce sera délicieux."
Puis il se remit à fumer sa pipe.

Solitudine, di Guy de Maupassant, video testo letto dal prof Garbarino




Si era alla fine di una cena tra uomini; l'allegria non era mancata. Uno dei presenti, un vecchio amico mi disse:"Vuoi che facciamo due passi per Champs Elysées?"
Ci avviammo, risalendo lentamente il lungo viale, sotto gli alberi ormai rivestiti di ben poche foglie. Nessun rumore, all'infuori di quel brusio confuso e continuo che produce Parigi. Un vento fresco ci accarezzava il viso, e una miriade di stelle disseminava nel cielo nero una polvere d'oro.
Il mio compagno mi disse: "Non so perché, respiro meglio qui, che in qualsiasi altro posto. Mi pare che la mia mente spazi di più. Ogni tanto ho uno di quegli squarci di luce che fanno pensare, per un istante, d'essere sul punto di scoprire il divino segreto delle cose. Poi la finestra si richiude. Tutto finisce".
Di tanto in tanto vedevamo due ombre scivolare lungo i boschetti; o passavamo davanti a una panchina dove due esseri, seduti a fianco a fianco, formavano una sola macchia scura.
Il mio vicino mormorò:
Povera gente! Non mi ispirano disgusto ma un'immensa pietà. Di tutti i misteri della vita umana uno almeno ne ho penetrato: il grande tormento della nostra esistenza viene dal fatto che siamo eternamente soli, e tutti i nostri sforzi, tutte le nostre azioni tendono solo a sfuggire questa solitudine. Come noi, come tutte le creature, questi innamorati delle panchine cercano di interrompere il loro isolamento, anche solo per un momento; ma restano e resteranno sempre soli; e noi come loro.
C'è chi se ne accorge di più, chi di meno, ecco tutto.
Da qualche tempo sopporto l'orribile martirio d'aver compreso d'aver scoperto la paurosa solitudine in cui vivo, e so che nulla può farla cessare, nulla, capisci! Qualunque cosa tentiamo, qualunque cosa facciamo, qualunque sia lo slancio del nostro cuore, l'appello delle nostre labbra e la stretta delle nostre braccia, siamo sempre soli.
Stasera ti ho trascinato a fare questa passeggiata per non tornare a casa, perché adesso soffro terribilmente della solitudine del mio appartamento. Ma a che cosa mi servirà? Io ti parlo, tu mi ascolti, e siamo soli tutti e due, l'uno accanto all'altro, ma soli. Mi capisci?
Beati i semplici di spirito, dice la Scrittura, essi hanno l'illusione della felicità. Non avvertono la nostra miseria solitaria, non errano, come noi, nella vita, senz'altro contatto che quello dei gomiti, senz'altra gioia all'infuori dell'egoistica soddisfazione di comprendere, di vedere di immaginare e di soffrire senza fine della consapevolezza del nostro eterno isolamento.
Mi trovi un po' pazzo, vero?
Ascoltami! Da quando ho sentito la solitudine del mio essere, mi pare di sprofondare, ogni giorno di più, in un sotterraneo buio di cui non trovo i limiti, di cui non conosco la fine e che forse non ha via d'uscita! Lo percorro da solo, senza nessuno attorno a me, senza nessun essere vivente che faccia con me lo stesso cammino tenebroso. Questo sotterraneo é la vita. A volte odo rumori, voci, grida ...m'avvicino a tentoni verso questi suoni confusi. Ma non so mai esattamente donde provengano; non incontro mai nessuno, non trovo mai un'altra mano in questa notte che mi circonda. Mi capisci?
C'è stato ogni tanto qualcuno che ha intuito questa atroce sofferenza.
Musset ha esclamato: chi viene? Chi mi chiama? Nessuno. Sono solo. - E' l'ora che suona. O solitudine! - O povertà.
Ma, per lui, si trattava d'un dubbio passeggero, e non d'una certezza definitiva, come per me. Era un poeta; popolava la vita di fantasmi, di sogni non era mai veramente solo. - Io si, sono solo! Gustave Flaubert, uno dei più grandi infelici di questo mondo, perché era fra le menti più lucide, non scrisse forse ad una amica questa frase disperata: "Noi siamo tutti in un deserto. Nessuno comprende nessuno"?
No, nessuno comprende nessuno, comunque cosa si pensi, si dica, si faccia. Forse che la terra sa cosa accade in quelle stelle lassù, gettate come granelli di fuoco attraverso lo spazio, così lontane che scorgiamo soltanto la luce di alcune, mentre l'innumerevole schiera delle altre é perduta nell'infinito, così vicine da formare forse un tutto, come le molecole di un corpo?
Ebbene, anche l'uomo non sa ciò che accade in un altro uomo. Siamo lontani l'uno dall'altro più di quegli astri, e soprattutto siamo isolati perché il pensiero é insondabile.
Conosci forse qualcosa di più spaventoso di quel contatto continuo con esseri che non possiamo penetrare? Ci amiamo l'un l'altro come fossimo incatenati, stretti, le braccia protese, senza riuscire a congiungerci. Siamo travagliati da un tormentoso bisogno di unione, ma tutti i nostri sforzi restano sterili, i nostri abbandoni inutili, le nostre confidenze infruttuose, i nostri amplessi impotenti, le nostre carezze vane. Quando vogliamo unirci, gli slanci dell'uno verso l'altro provocano solo degli urti reciproci. Non mi sento mai così solo come quando apro il cuore ad un amico, perché allora mi rendo conto di come l'ostacolo sia insormontabile. Quest'uomo é qui; vedo i suoi occhi chiari fissi nei miei! Ma l'anima che é dietro a quegli occhi non la conosco. Mi ascolta. Che pensa? Si, che pensa? Non lo comprendi tu questo tormento? Mi odia, forse? O mi disprezza? O si prende gioco di me? Mi odia, forse? O mi disprezza? O si prende gioco di me? Riflette a quello che dico, mi giudica, mi deride, mi condanna, mi stima mediocre o schiocco? Come sapere quello che pensa? Come sapere se mi ama come lo amo io? E quello che si agita in quella piccola testa rotonda? Com'è misterioso il pensiero ignoto d'un altro essere, il pensiero nascosto e libero, che non possiamo né conoscere né guidare né dominare né vincere!
E io, anche se voglio concedermi interamente, anche se voglio aprire tutte le porte della mia anima, non riesco mai a raggiungere l'abbandono completo. Nel fondo, proprio nel fondo della mia anima conservo quel luogo segreto dell'io dove nessuno penetra mai.
Nessuno può scoprirlo né entrarvi, perché nessuno mi assomiglia, perché nessuno comprende nessuno.
Mi comprendi almeno tu in questo momento? No, mi giudichi pazzo! Mi esamini, diffidi di me! Ti domandi: "Che cos'ha stasera?" Ma se un giorno ti capiterà di afferrare, di immaginare la mia acuta e sottile sofferenza, vieni a dirmi soltanto: ti ho capito! E forse, per un attimo mi renderai felice.
Le donne mi fanno sentire ancora di più la mia solitudine. Ahimè ahimè come ho sofferto per colpa loro, perché più spesso degli uomini mi hanno dato l'illusione di non essere solo!
Quando si entra nell'amore, sembra di spaziare in un mondo più vasto. Ti senti invadere da una felicità sovrumana sai perché! Sai di dove ci viene questa sensazione d'immensa felicità? Unicamente dal pensiero di non essere più soli. L'isolamento l'abbandono dell'essere umano sembra cessare. Che errore!
La donna ancora più tormentata di noi da quest'eterno bisogno d'amore che ci rode il cuore solitario, e la grande menzogna del Sogno.
Tu conosci le ore deliziose passate a faccia a faccia con questi esseri dai lunghi capelli, dai lineamenti incantatori, il cui sguardo ci fa perder la testa. Che delirio ci sconvolge la mente! Che illusione ci trascina!
Fra poco lei e io saremo una cosa sola, così sembra, no? Ma questo fra poco non arriva mai, e dopo settimane d'attesa di speranza e di gioia ingannevole, un bel giorno mi ritrovo più solo di quanto fossi mai stato.
Dopo ogni bacio, dopo ogni amplesso, l'isolamento cresce. E com'è straziante, spaventoso!
Un poeta, Sully-Prudhomme, non ha forse scritto: "Inquieti slanci sono le carezze, vani sforzi del povero amore che cerca l'impossibile unione delle anime attraverso l'unione dei corpi.."
E poi, addio. È finito a stento ricordiamo la donna che fu tutto per noi in un periodo della nostra vita, e della quale non abbiamo mai conosciuto il pensiero intimo che poi era certo banale!
Persino nei momenti in cui pareva di penetrare nel profondo del suo animo, in un misterioso accordo degli esseri in una completa fusione dei desideri e delle aspirazioni, bastava una parola, una parola sola, a volte per rivelarci il nostro errore e mostrarci, come un lampo nella notte, la voragine buia che ci divide.
Eppure, non c'è cosa più bella al mondo che passare una sera con la donna amata, senza parlare, quasi completamente felici per la sola sensazione della sua presenza. Non chiediamo di più, perché mai due esseri si fondono in uno.
Quanto a me ora ho chiuso la mia anima. Non dico più a nessuno ciò che credo, ciò che penso, ciò che amo. Consapevole d'essere condannato all'orribile solitudine, guardo le cose senza mai manifestare la mia opinione. Che m'importano le opinioni, le dispute, i gusti, le credenze! Non potendo condividere nulla con nessuno, mi sono disinteressato di tutto. Il mio pensiero, invisibile rimane inesplorato. Rispondo con frasi banali alle domande di tutti i giorni, e con un sorriso che dice: "Sì", quando non voglio darmi nemmeno la briga di parlare.
Mi capisci?
Avevamo risalito il lungo viale fino all'arco di trionfo dell'etoile, poi eravamo ridiscesi fino a Place de la Concorde, perché lui aveva parlato lentamente, aggiungendo anche molte altre cose che non ricordo più.
Il mio amico si fermò, e all'improvviso, tese le braccia verso l'alto obelisco di granito che si erge sul lastricato di Parigi e innalza fra le stelle il suo lungo profilo egiziano, monumento esiliato, recante sul fianco la storia del suo paese scritta in lettere strane; ed esclamo: - Guarda noi tutti siamo come quella pietra.
Poi mi lasciò senza aggiungere altro.
Era ubriaco? Era pazzo? Era saggio? Non lo so ancora. A volte mi sembra che avesse ragione; a volte mi sembra che avesse perduto il senno.



TESTO ORIGINALE IN FRANCESE

C'était après un dîner d'hommes. On avait été fort gai. Un d'eux, un vieil ami, me dit :
- Veux-tu remonter à pied l'avenue des Champs-Élysées ?
Et nous voilà partis, suivant à pas lents la longue promenade, sous les arbres à peine vêtus de feuilles encore. Aucun bruit, que cette rumeur confuse et continue que fait Paris. Un vent frais nous passait sur le visage, et la légion des étoiles semait sur le ciel noir une poudre d'or.
Mon compagnon me dit :
- Je ne sais pourquoi, je respire mieux ici, la nuit, que partout ailleurs. Il me semble que ma pensée s'y élargit. J'ai, par moments, ces espèces de lueurs dans l'esprit qui font croire, pendant une seconde, qu'on va découvrir le divin secret des choses. Puis la fenêtre se referme. C'est fini.
De temps en temps, nous voyions glisser deux ombres le long des massifs ; nous passions devant un banc où deux êtres, assis côte à côte, ne faisaient qu'une tache noire.
Mon voisin murmura :
- Pauvres gens ! Ce n'est pas du dégoût qu'ils m'inspirent, mais une immense pitié. Parmi tous les mystères de la vie humaine, il en est un que j'ai pénétré : notre grand tourment dans l'existence vient de ce que nous sommes éternellement seuls, et tous nos efforts, tous nos actes ne tendent qu'à fuir cette solitude. Ceux-là, ces amoureux des bancs en plein air, cherchent, comme nous, comme toutes les créatures, à faire cesser leur isolement, rien que pendant une minute au moins ; mais ils demeurent, ils demeureront toujours seuls ; et nous aussi.
On s'en aperçoit plus ou moins, voilà tout.
Depuis quelque temps j'endure cet abominable supplice d'avoir compris, d'avoir découvert l'affreuse solitude où je vis, et je sais que rien ne peut la faire cesser, rien, entends-tu ! Quoi que nous tentions, quoi que nous fassions, quels que soient l'élan de nos coeurs, l'appel de nos lèvres et l'étreinte de nos bras, nous sommes toujours seuls.
Je t'ai entraîné ce soir, à cette promenade, pour ne pas rentrer chez moi, parce que je souffre horriblement, maintenant, de la solitude de mon logement. A quoi cela me servira-t-il ? Je te parle, tu m'écoutes, et nous sommes seuls tous deux, côte à côte, mais seuls. Me comprends-tu ?
Bienheureux les simples d'esprit, dit l'Écriture. Ils ont l'illusion du bonheur. Ils ne sentent pas, ceux-là, notre misère solitaire, ils n'errent pas, comme moi, dans la vie, sans autre contact que celui des coudes, sans autre joie que l'égoïste satisfaction de comprendre, de voir, de deviner et de souffrir sans fin de la connaissance de notre éternel isolement.
Tu me trouves un peu fou, n'est-ce pas ?
Écoute-moi. Depuis que j'ai senti la solitude de mon être, il me semble que je m'enfonce, chaque jour davantage, dans un souterrain sombre, dont je ne trouve pas les bords, dont je ne connais pas la fin, et qui n'a point de bout, peut-être ! J'y vais sans personne avec moi, sans personne autour de moi, sans personne de vivant faisant cette même route ténébreuse. Ce souterrain, c'est la vie. Parfois j'entends des bruits, des voix, des cris... je m'avance à tâtons vers ces rumeurs confuses. Mais je ne sais jamais au juste d'où elles partent ; je ne rencontre jamais personne, je ne trouve jamais une autre main dans ce noir qui m'entoure. Me comprends-tu ?
Quelques hommes ont parfois deviné cette souffrance atroce.
Musset s'est écrié :

Qui vient ? Qui m'appelle ? Personne.
Je suis seul. - C'est l'heure qui sonne.
O solitude ! - O pauvreté !

Mais, chez lui, ce n'était là qu'un doute passager, et non pas une certitude définitive, comme chez moi. Il était poète ; il peuplait la vie de fantômes, de rêves. Il n'était jamais vraiment seul. - Moi, je suis seul !
Gustave Flaubert, un des grands malheureux de ce monde, parce qu'il était un des grands lucides, n'écrivait-il pas à une amie cette phrase désespérante : "Nous sommes tous dans un désert. Personne ne comprend personne."
Non, personne ne comprend personne, quoi qu'on pense, quoi qu'on dise, quoi qu'on tente. La terre sait-elle ce qui se passe dans ces étoiles que voilà, jetées comme une graine de feu à travers l'espace, si loin que nous apercevons seulement la clarté de quelques-unes, alors que l'innombrable armée des autres est perdue dans l'infini, si proches qu'elles forment peut-être un tout, comme les molécules d'un corps ?
Eh bien, l'homme ne sait pas davantage ce qui se passe dans un autre homme. Nous sommes plus loin l'un de l'autre que ces astres, plus isolés surtout, parce que la pensée est insondable.
Sais-tu quelque chose de plus affreux que ce constant frôlement des êtres que nous ne pouvons pénétrer ! Nous nous aimons les uns les autres comme si nous étions enchaînés, tout près, les bras tendus, sans parvenir à nous joindre. Un torturant besoin d'union nous travaille, mais tous nos efforts restent stériles, nos abandons inutiles, nos confidences infructueuses, nos étreintes impuissantes, nos caresses vaines. Quand nous voulons nous mêler, nos élans de l'un vers l'autre ne font que nous heurter l'un à l'autre.
Je ne me sens jamais plus seul que lorsque je livre mon coeur à quelque ami, parce que je comprends mieux alors l'infranchissable obstacle. Il est là, cet homme ; je vois ses yeux clairs sur moi ; mais son âme, derrière eux, je ne la connais point. Il m'écoute. Que pense-t-il ? Oui, que pense-t-il ? Tu ne comprends pas ce tourment ? Il me hait peut-être ? ou me méprise ? ou se moque de moi ? Il réfléchit à ce que je dis, il me juge, il me raille, il me condamne, m'estime médiocre ou sot. Comment savoir ce qu'il pense ? Comment savoir s'il m'aime comme je l'aime ? et ce qui s'agite dans cette petite tête ronde ? Quel mystère que la pensée inconnue d'un être, la pensée cachée et libre, que nous ne pouvons ni connaître, ni conduire, ni dominer, ni vaincre !
Et moi, j'ai beau vouloir me donner tout entier, ouvrir toutes les portes de mon âme, je ne parviens point à me livrer. Je garde au fond, tout au fond, ce lieu secret du Moi où personne ne pénètre. Personne ne peut le découvrir, y entrer, parce que personne ne me ressemble, parce que personne ne comprend personne.
Me comprends-tu, au moins, en ce moment, toi ? Non, tu me juges fou ! tu m'examines, tu te gardes de moi ! Tu te demandes : "Qu'est-ce qu'il a, ce soir ?" Mais si tu parviens à saisir un jour, à bien deviner mon horrible et subtile souffrance, viens-t'en me dire seulement : Je t'ai compris ! et tu me rendras heureux, une seconde, peut-être.
Ce sont les femmes qui me font encore le mieux apercevoir ma solitude.
Misère ! Misère ! Comme j'ai souffert par elles, parce qu'elles m'ont donné souvent, plus que les hommes, l'illusion de n'être pas seul !
Quand on entre dans l'Amour, il semble qu'on s'élargit. Une félicité surhumaine vous envahit. Sais-tu pourquoi ? Sais-tu d'où vient cette sensation d'immense bonheur ? C'est uniquement parce qu'on s'imagine n'être plus seul. L'isolement, l'abandon de l'être humain paraît cesser. Quelle erreur !
Plus tourmentée encore que nous par cet éternel besoin d'amour qui ronge notre coeur solitaire, la femme est le grand mensonge du Rêve.
Tu connais ces heures délicieuses passées face à face avec cet être à longs cheveux, aux traits charmeurs et dont le regard nous affole. Quel délire égare notre esprit ! Quelle illusion nous emporte !
Elle et moi, nous n'allons plus faire qu'un, tout à l'heure, semble-t-il ? Mais ce tout à l'heure n'arrive jamais, et, après des semaines d'attente, d'espérance et de joie trompeuse, je me retrouve tout à coup, un jour, plus seul que je ne l'avais encore été.
Après chaque baiser, après chaque étreinte, l'isolement s'agrandit. Et comme il est navrant, épouvantable.
Un poète, M. Sully Prudhomme, n'a-t-il pas écrit :

Les caresses ne sont que d'inquiets transports,
Infructueux essais du pauvre amour qui tente
L'impossible union des âmes par les corps...

Et puis, adieu. C'est fini. C'est à peine si on reconnaît cette femme qui a été tout pour nous pendant un moment de la vie, et dont nous n'avons jamais connu la pensée intime et banale sans doute !
Aux heures mêmes où il semblait que, dans un accord mystérieux des êtres, dans un complet emmêlement des désirs et de toutes les aspirations, on était descendu jusqu'au profond de son âme, un mot, un seul mot, parfois, nous révélait notre erreur, nous montrait, comme un éclair dans la nuit, le trou noir entre nous.
Et pourtant, ce qu'il y a encore de meilleur au monde, c'est de passer un soir auprès d'une femme qu'on aime, sans parler, heureux presque complètement par la seule sensation de sa présence. Ne demandons pas plus, car jamais deux êtres ne se mêlent.
Quant à moi, maintenant, j'ai fermé mon âme. Je ne dis plus à personne ce que je crois, ce que je pense et ce que j'aime. Me sachant condamné à l'horrible solitude, je regarde les choses, sans jamais émettre mon avis. Que m'importent les opinions, les querelles, les plaisirs, les croyances ! Ne pouvant rien partager avec personne, je me suis désintéressé de tout. Ma pensée, invisible, demeure inexplorée. J'ai des phrases banales pour répondre aux interrogations de chaque jour, et un sourire qui dit : "Oui", quand je ne veux même pas prendre la peine de parler.
Me comprends-tu ?

Nous avions remonté la longue avenue jusqu'à l'Arc de triomphe de l'Étoile, puis nous étions redescendus jusqu'à la place de la Concorde, car il avait énoncé tout cela lentement, en ajoutant encore beaucoup d'autres choses dont je ne me souviens plus.
Il s'arrêta et, brusquement, tendant le bras vers le haut obélisque de granit, debout sur le pavé de Paris et qui perdait, au milieu des étoiles, son long profil égyptien, monument exilé, portant au flanc l'histoire de son pays écrite en signes étranges, mon ami s'écria :
- Tiens, nous sommes tous comme cette pierre.
Puis il me quitta sans ajouter un mot.
Était-il gris ? Était-il fou ? Était-il sage ? Je ne le sais encore. Parfois il me semble qu'il avait raison ; parfois il me semble qu'il avait perdu l'esprit.